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Robot biologici di Philip Corso

Robot biologici
Robot biologici

 

Macchine, nel senso lato del termine, lo siamo anche noi.

Macchine che pensano, che sudano, che elaborano.

Milioni di dati che scorrono sotto la superficie della pelle, attraverso il nostro complesso neurale. Sensazioni di caldo, umido, ruvido, veloce, equilibrio, aspro, luminoso, voci sgradevoli o richiami lontani, qualcosa nella tasca o un refolo di vento che gela la pelle.

Sensazioni, pensieri, considerazioni astratte, continue compensazioni nel camminare, distribuire il peso, calibrare le espressioni facciali, trovare i tasti su di una tastiera senza guardare perché la nostra mente ormai li ha memorizzati come i numeri di cellulare che conosciamo a memoria, come i nomi dei nostri amici, parenti, uomini famosi, personaggi storici, di attualità o persino di fiction: tutti memorizzati in uno spazio fisico grande più o meno come un melone, assieme a tutte le nostre esperienze di vita, le strade che abbiamo attraversato e gli errori fatti. Nel mondo occidentale, in seguito a una lunga tradizione scientifica e razionale, consideriamo le macchine qualcosa di freddo e asettico, qualcosa che funziona per eseguire un lavoro o assolvere uno scopo in maniera determinata e meccanica, senza sensibilità, intelligenza o capacità di scelta.

Associamo le macchine alle automobili, alle televisioni, ai tostapane, agli orologi di precisione o ai laser. Eppure, per altre culture, per altri punti di vista, il termine macchina è associabile perfettamente a qualcosa di biologico.

D’altro canto, persino il moto dell’universo stesso e dei pianeti, il pulsare delle stelle, così come i ritmi della natura, la crescita delle cellule, il battere del cuore, sono tutti meccanismi perfetti. Ma non li definiremmo mai qualcosa di freddo e inumano.

Negli ultimi anni, numerosi testimoni di incontri ravvicinati o ex insiders governativi hanno parlato di “astronavi biologiche” e, per complicare ancora di più la scena, di piloti creati ad hoc per guidare dette astronavi, anch’essi in parte robotici, in parte biologici.

Ma questo genere di tecnologia è davvero concepibile?

E su che presupposti si baserebbe?

Soprattutto, per quale motivo sarebbe stato necessario, per degli alieni, creare strutture ibride meccanico/biologiche?

❖ I robot biologici di Corso

In ufologia si iniziò a parlare di astronavi biologiche con il colonnello Philip Corso, che, come tutti sanno (o dovrebbero) lavorò dal 1960 al 1962 ad un progetto segreto del Pentagono proteso a ottenere dei progressi tecnologici consistenti grazie all’analisi di alcune apparecchiature trovate a bordo del velivolo alieno caduto a Roswell, New Mexico, nel 1947.

A detta di Corso, le misteriose creature che guidavano la navetta erano EBE, Entità Biologiche Extraterrestri, una sorta di robot biologici (formati non da parti meccaniche ma grazie a un’avanzata ingegneria genetica) programmati per resistere alle condizioni estreme dei viaggi spaziali e a saper guidare un’astronave grazie a una particolare interfaccia neurale di cui erano dotati, grazie alla quale, erano in grado di connettersi con l’astronave quasi ne fossero una parte integrante.

Questo tipo di affermazioni da parte di Corso, più che altro, lasciarono interdetti e un po’ scettici e molti ricercatori che da anni si interessavano al fenomeno.

Era difficile per tutti concepire qualcosa di diverso dai robusti astronauti NASA tutto muscoli, capelli rasati e accento del Wisconsin o dell’Oklahoma che salivano masticando gomme su di un rottame metallico pieno di carburante puntato come un dito verso il cielo; immaginare un concetto come un velivolo parzialmente biologico e un pilota parzialmente tecnologico.

Anche se di recente diversi ricercatori hanno scoperto che persino le piante hanno un loro modo di ragionare e che una forma di coscienza o consapevolezza è rinvenibile perfino negli insetti o addirittura negli organismi cellulari, per noi esseri umani il concetto di una macchina biologica rimane comunque un assioma quasi inconcepibile, se non addirittura una contraddizione. Negli anni, altri hanno parlato di eventi che avrebbero riguardato interazioni con entità di altri mondi e delle loro tecnologie.

Il contattista messicano Carlos Dìaz, ad esempio, che dal 1981 avrebbe avuto dei contatti con esseri di altri mondi è diventato famoso per le sue foto che ritraggono velivoli discoidali luminescenti, che lui definisce “Ships of Light”, astronavi di luce.

Nel corso delle sue interviste, ha dichiarato spesso, che a quanto gli è stato spiegato, quelle astronavi dai colori caldi sono in realtà degli organismi viventi.
Anche Bob Lazar, lo scienziato che sostiene di aver lavorato nella famigerata Area 51, ha parlato a suo tempo di alcune caratteristiche tecniche dei dischi volanti tenuti nella base militare USA. Stando a Lazar, ad esempio, il pavimento dei dischi era formato da una sostanza spugnosa e gommosa, violacea, che diventava tesa e compatta quando si accendevano i motori a curvatura. Apparentemente, il pavimento sembrava formato da una sorta di pelle, ed era caldo e lievemente umido al tatto.

Anche lo sportello di accesso del disco su cui lavorò Lazar era caratterizzato da proprietà sconcertanti: si apriva grazie a una sorta di telecomando a distanza, ma, una volta  richiuso, lo sportello non era più visibile, appariva alla vista una parete liscia e continua di metallo, anch’esso caldo. Nella descrizione di Lazar, era come se gli atomi del metallo si fondessero tra di loro, come una ferita che si richiude.

Anche questa caratteristica avvicinerebbe il concetto delle astronavi di origine aliena più a una sorta di essere organico che a una semplice macchina.
Un altro ricercatore ben noto ai lettori più attenti, lo scomparso William Hamilton, ex pilota USAF ed esperto di sistemi informatici, fece a suo tempo delle interessanti affermazioni sulla reale natura degli UFO:

 

“nel corso delle mie ricerche ho scoperto un certo  numero di elementi alla base della tecnologia UFO. Mi riferisco ad  Orfeo Angelucci, che ho avuto modo di conoscere, il quale dichiarava  di aver avuto esperienze di contatto, negli anni dal 1953 al 1955 e raccontava che i dischi volanti che aveva visto e gli esseri che  aveva incontrato, provenivano da un’altra dimensione temporale. Gli  oggetti non erano costruiti come noi costruiamo gli aerei oppure le automobili, no, gli oggetti crescevano, come fa un cristallo… tutti i sistemi di cui necessitavano crescevano internamente, proprio come nel sistema del corpo umano o di un fiore. Gli UFO vivono attraverso  un processo organico.”


Alcune notizie sulle EBE vennero a suo tempo divulgate dal Dr. Dan Burisch nella seconda metà del 2002, in particolare in merito agli studi da lui condotti su un presunto extraterrestre nell’Area 51 a partire dal 1986. Burisch, che è un microbiologo, venne condotto in un laboratorio sotterraneo dove studiò la biologia dell’essere alieno definito J-Rod, apparentemente un classico grigio. Dato che apparentemente J-Rod soffriva di una degenerazione dei tessuti nervosi, a Burisch venne chiesto di prelevare del tessuto dal braccio dell’essere per effettuare degli esami medici.

A detta del microbiologo, c’era una profonda interconnessione biologica tra la creatura e la tecnologia dell’astronave. J-Rod in qualche modo era stato programmato geneticamente per fungere da interfaccia biofisico con l’astronave tramite innesti nelle mani e la testa.

Questo tipo di EBE possedevano sulle mani una sorta di cuscinetti dove erano presenti nervi scoperti, protetti da varie glicoproteine che vengono selettivamente spinte all’esterno o all’interno con l’azione dei capillari, quasi come se una guaina viscosa permettesse a J-Rod di avere un interfaccia diretta con la nave.

Stando a Burish, la biologia di quel tipo di creature era molto complessa, ma anche estremamente compromessa, infatti, da alcune schede mediche riservate giunte in suo possesso, sembrava che essi fossero affetti da diverse patologie virali.

È possibile (in qualche maniera) che la struttura genetica delle EBE, studiata appositamente per coincidere e funzionare in parallelo con delle strutture biotecnologiche delle astronavi fossero particolarmente delicate, tanto, che a contatto con alcuni elementi inquinanti del nostro pianeta potesse danneggiarsi o infettarsi.
Il ricercatore americano Derrel Sims, da anni compie attenti esami sugli impianti metallici estratti agli addotti. Questi oggetti risultano nascosti, o meglio, “avvolti” in una specie di bozzolo biologico che non evidenzia alcuna reazione infiammatoria, né cronica né acuta.

Qualcosa che i patologi non credevano possibile, eppure, sono stati proprio i rapporti patologici a confermarlo. “Ecco cosa si constata”,  afferma Sims:

 

“nessun punto d’entrata, nessuna lesione e nessuna cognizione da parte delle persone in questione di come gli oggetti si trovino dentro il loro corpo, a parte la consapevolezza di una qualche manifestazione aliena, suffragata dalla testimonianza di altre persone presenti agli eventi. Nessuna reazione infiammatoria a corpi estranei che certi segni visibili comprovano essere stati innestati anche 40 anni prima. Incredibile”.

È possibile che la perizia che dimostrano gli alieni nel far coesistere impianti tecnologici all’interno di corpi biologici umani, evitando ogni tipo di rigetto, derivi dalla loro lunga esperienza nel campo della medicina e dell’ingegneria genetica tesa a creare entità biotecnologiche, astronauti umanoidi ibridi?

I bozzoli biologici di cui parla Bonvin, potrebbero essere dei tessuti creati in laboratorio per facilitare la coesistenza di impianti tecnologici installati in entità biologiche programmate geneticamente per vivere nello spazio?

❖ Astronauti geneticamente modificati

L’idea di creare ad hoc un essere umano metà biologico metà sintetico che diventi tutt’uno con una astronave e sia adatto a vivere nello spazio sembra pura fantascienza.

Eppure, i recenti studi della NASA per il futuro viaggio umano verso Marte ha portato a incredibili e sconvolgenti conclusioni. Nonostante per gli Stati Uniti trovare velocemente una via per il pianeta rosso sia imperativo, le difficoltà non mancano.

È di pochi mesi fa la notizia che ora gli scienziati americani stanno conducendo enormi ricerche per scoprire i possibili danni cerebrali causati da una lunga esposizione ai raggi solari senza la protezione delle fasce di Van Allen.

Gli scienziati difatti temono che l’incredibile quantità di radiazioni cosmiche e solari a cui saranno sottoposti gli astronauti potrebbe danneggiare pesantemente il loro cervello, fino a ridurli addirittura in stato vegetativo, sempre che riescano a sopravvivere.

Lo chiamano il "Fattore Rischio 29" alla NASA, il problema dei raggi cosmici e solari è talmente decisivo che viene definito “show-stopper”, cioè, un problema che porta lo show del viaggio verso Marte a fermarsi, questo perché schermare tutta l’astronave dalle radiazioni la farebbe aumentare vertiginosamente di peso e, di conseguenza, troppo pesante per essere spinta con successo fino a Marte, che, rammentiamolo, dista ben 38 milioni di miglia dalla Terra. Ora, gli scienziati (più praticamente) stanno cercando dei farmaci che stimolino la biologia umana rafforzando i neuroni cerebrali impedendogli di subire passivamente i deleteri effetti dei raggi cosmici per un periodo prolungato di tempo.

Il progetto per il quale la NASA ha stanziato ben 14 milioni di dollari per la ricerca, non solo eliminerà (si spera) i rischi per gli astronauti, ma, potrebbe avere dei risultati positivi anche per le malattie neurologiche come l’Alzheimer.
A parte il fattore Rischio 29, alla NASA hanno analizzato altri 45 punti di rischio per la salute degli astronauti in un viaggio che dovrebbe durare, nel migliore dei casi, almeno 2 anni.

Questi vanno dall'osteoporosi accelerata, ai dolori articolari, difficoltà di movimento, incapacità di guarire spontaneamente da piccoli malesseri, la mancanza scorte di cibo e, naturalmente, la forte possibilità di screzi e “tensioni interpersonali” tra i vari membri dell’equipaggio. Ma questo lo immaginavamo già dai tempi del primo “Grande Fratello” televisivo. Per rendere le cose più complicate, una possibile traiettoria della futura astronave prevede di navigare prima verso Venere, girargli attorno e sfruttare il suo “effetto fionda” gravitazionale per acquistare velocità e quindi uscire dall’orbita per dirigersi verso Marte.

Ma questo, naturalmente, vorrebbe dire avvicinare ancora di più l’equipaggio al sole per diversi mesi. “Stiamo parlando di reazioni ignote delle radiazioni nei confronti del corpo umano, cose che abbiamo visto forse solo dopo i disastri atomici come Chernobyl.

In effetti, il Sole è una sorta di gigantesco reattore nucleare”, sostengono alla NASA.

Capirete da soli quante possano essere le possibilità che tale viaggio riesca, oltretutto, entro breve tempo sono assai rare. A detta di alcuni esperti NASA, per poter vivere nello spazio, gli astronauti dovrebbero subire delle trasformazioni biochimiche, o mutazioni del codice genetico, diventando così quasi una sorta di ibridi, resistenti a tutte le avversità di un volo spaziale.

❖ Esseri viventi meccanici

Il primo a parlare di astronavi biologiche fu nel 1953 lo scrittore di fantascienza Robert Sheckley, in un suo racconto intitolato “Specialist”. 

 

Sito ufologico
Specialist by Robert Sheckley
Specialist by Robert Sheckley

 

In questo racconto, un umano chiamato Pusher prende parte a una relazione simbiotica con un’astronave assieme ad altri alieni, diventando tutt’uno con una astronave biologica definita bioship. Ogni essere aveva una funzione diversa, prestando le proprie qualità organiche all’astronave. La funzione dell’umano era quella di usare il potere derivante dall’uso della sua ghiandola pineale per accelerare la nave stellare fino a una velocità 8 volte superiore a quella della luce. Benché questa fosse solo una storia di fantascienza, sono molti i resoconti di IR3 e IR4 in cui i testimoni narrano un modo simile di concepire le astronavi e il loro utilizzo.

Nei racconti dei testimoni, i piloti alieni sembrano in grado di sentire l’astronave “soffrire” in determinati casi e, in altri, la maniera in cui l’astronave svolge le sue funzioni sono assimilabili a funzioni organiche: la respirazione della bioship climatizza la nave, le rotture dello scafo vengono percepite come ferite e una sorta di sistema automatico simile al sistema immunitario provvede a richiuderle, mentre il sistema di guida e di movimento della nave è simile al nostro sistema nervoso e motorio.

In quest'ottica, guidare un’astronave (specie di grosse dimensioni come una astronave madre) sarebbe impossibile se questa non avesse in sé una serie di funzioni automatiche organiche. In tal modo, guidare tale mezzo sarebbe più simile a cavalcare un grosso animale che a pilotare uno strumento metallico. Nel recente remake della serie TV Battlestar Galactica si descrive come le astronavi madre dei Cyloni siano guidate e coordinate da una creatura ibrida, metà computer e metà umanoide che elabora costantemente i dati di navigazione e che vede le stelle nella sua mente.

Per quanto questi concetti possano apparire inconcepibili a prima vista è proprio così che le creature aliene di Roswell guidavano la loro astronave, stando alle rivelazioni di insider come Corso ed altri. Stando alle testimonianze di chi partecipò al recupero delle EBE precipitate a Roswell, New Mexico nel 1947, almeno 2 di esse, benché ferite, stringevano spasmodicamente 2 strane tastiere, quasi fossero terrorizzate di perderle.

Tali tastiere vennero poi rese famose da alcuni spezzoni video che le mostravano: sembravano dei rettangoli di metallo leggero, simile all’alluminio di circa 60 cm di lunghezza e 25 di larghezza e spesse 5 cm.

Tali “tastiere” avevano 2 ordini di fori disposti ad arco (uno superiore, l’altro inferiore), mentre nel centro della stessa si notava l’incavo per poggiare una mano a sei dita sulla stessa tastiera. Qualcuno ha ipotizzato che dei raggi di luce simili a fotocellule uscissero dai fori e, che le EBE, dessero i comandi al velivolo interrompendo temporaneamente le fotocellule, ottenendo così un azione simile a spingere un pulsante.

 

Comandi astronave
Comandi astronave

 

 

Ma perché stringevano così forsennatamente le tastiere?

È possibile che fungessero  anche da Hard Disk e che contenessero dunque anche tutti i dati di navigazione stellare? Se così fosse, senza tali tastiere essi non sarebbero mai tornati a casa. E la delicatezza necessaria nell’utilizzo di tali tastiere avrebbe reso logico la presenza di recettori nervosi particolari sui polpastrelli delle EBE, proprio come quelli che secondo le testimonianze aveva J-Rod.
Ma una domanda mi rimaneva:

perché mai fare una scanalatura sulle tastiere per fissare la mano al proprio posto?

Non vedevano, i piloti alieni, dove dovevano mettere le mani?
Di recente stavo svolgendo un lavoro e mi venne chiesto di informarmi sulla tecnologia necessaria per creare un sito web per non vedenti.

Incuriosito, iniziai a navigare tra siti che vendevano apparecchi di nuovissima generazione che permettevano l’uso del PC, ma anche di internet ai non vedenti.

Fu un lieve shock ritrovare in quei cataloghi la copia quasi identica delle tastiere di Roswell.

Come è fatta una tastiera braille per non vedenti?

Innanzitutto c’è una scanalatura o una “guida” che indica in maniera tattile al non vedente dove deve mettere le dita. In certi casi, tale guida è formata direttamente da dei grossi tasti (uno per ogni dito) che possono venire azionati singolarmente.


Oltre ad altri bottoni, vicino ai polsi, c’è una stringa di minuscoli elementi che si possono alzare a seconda del testo letto dal PC, eseguendo la “traduzione” braille in tempo reale e un’altra fila di tasti configurabili.

Tutte le tastiere per non vedenti hanno una base di concezione simile e sempre uguale.

Solo una tastiera per “vedenti” fa eccezione (anche se viene spesso usata da chi ha disagi o disabilità) e assomiglia  lievemente a quelle braille, la DataHand Pro, formata da 2 quadrati in cui si “alloggiano” le mani in un incavo e nel punto in cui si muove il polpastrello ci sono dei pulsanti cliccabili. Per pura coincidenza, proprio la tastiera DataHand venne scelta per apparire nel film “Contact” del 1997, come “controller” della macchina per i viaggi spaziali comandata da Jodie Foster. Ma cosa vuol dire tutto questo?

È ovvio che le EBE ci vedevano benissimo, lo dicono i testimoni e si evinceva anche dai rapporti autoptici di White Sands.

Ma allora perché le tastiere “per ciechi?”

Si può pilotare un’astronave senza occhi?

Risposta: sì, se i tuoi occhi sono tutt’uno con le telecamere esterne dell’astronave.

❖ Gli occhi elettronici dell’HMDS

 

Rockwell Collins Gen III F-35 Helmet Mounted Display System
Rockwell Collins Gen III F-35 Helmet Mounted Display System

 

L’Helmet Mounted Display System (HMDS) della VSI ha volato per la prima volta a bordo dell’F-35 Lightning II, indossato dal pilota collaudatore Jon Beesley della Lockheed Martin.

Frutto del quinquennale lavoro di sviluppo della Vision Systems International, LLC, il nuovo casco ha completato tutti i test di sicurezza in volo permettendo un’espulsione del seggiolino a 450 KEAS (knots equivalent air speed), con integrità strutturale fino a 600 KEAS.

Sostituendo il tradizionale HUD, l’HMDS, dotato di sofisticati sistemi di processazione grafica e head-tracking, si interfaccia con l’avanzata architettura avionica del Joint Strike Fighter, fornendo al pilota informazioni critiche aggiornate proiettandole direttamente sul visore dell’elmetto, rendendo così possibile l’ingaggio di obiettivi fuori asse, in condizione ogni tempo e aumentando drasticamente la consapevolezza situazionale e tattica grazie alla convergenza di dati provenienti dalla fusione dei sensori (sensor fusion) del velivolo.

L’F-35 è il primo caccia a volare con una versione più evoluta di un casco di tipo HUD (head-up display), una tecnologia che già al suo primo apparire, negli anni ’70, fu una autentica rivoluzione. L'Head-Up Display (visore a testa alta), o semplicemente HUD è un tipo di display che permette la visualizzazione dei dati di volo (ad esempio quota, velocità e beccheggio) senza dover costringere lo sguardo a soffermarsi sui vari strumenti nella cabina (o abitacolo). Questa tecnica è stata inizialmente introdotta per l'aviazione militare ma è stata in seguito adottata anche dall'aviazione civile, implementata su veicoli terrestri e marittimi oltre che in varie applicazioni di altri settori.

 

Head-Up Display - un esempio di quelli in uso sulle automobili, la proiezione delle informazioni avviene dirattamente sul vetro
Head-Up Display - un esempio di quelli in uso sulle automobili, la proiezione delle informazioni avviene dirattamente sul vetro


Ad oggi esistono 2 tipi di HUD: fisso, in cui l'utilizzatore guarda attraverso uno schermo trasparente montato sul pannello degli strumenti dell'aereo o sul cruscotto del veicolo.

Gli aerei commerciali e gli altri veicoli terrestri e marittimi hanno installati apparati di questo genere. Il sistema determina l'immagine da presentare conformemente all'orientamento del veicolo. La dimensione ed il peso dello schermo possono essere di gran lunga superiori che per la seconda categoria di HUD. Integrato nel casco o nell'elmetto, in cui il display installato sulla visiera o su un mirino ottico si muove assieme alla testa del pilota.

Questa tipologia richiede un più sofisticato sistema di monitoraggio degli spostamenti del corpo per stabilire rapidamente le immagini da proiettare a video.

L'apparecchiatura sia ad elmetto che a mirino monoculare fonda la propria accuratezza sul corretto ancoraggio alla testa del pilota, per evitare eventuali errori di prospettiva e parallasse. Nel casco HDM di nuovissima concezione, invece, le cose sono ancora più complesse: il casco HMD è dotato della possibilità di creare un “HUD” virtuale, afferma la VSI, visualizzando all’interno del casco alcuni simboli e dati così come mostrando immagini diurne o notturne ottenuta dalle telecamere esterne dell’F-35’a 360° grazie a dei sensori a infrarossi e sensori di bersaglio elettro-ottici.

Al posto dei vecchi CRTs (Cathode Ray Tubes), lo helmet mounted display system possiede 2 proiettori su matrici diagonali a cristalli liquidi (LCD) di 0.7 pollici, risoluzione 1280 x 1024, una per ciascun lato dell’elmetto, su cui vengono proiettate le immagini di ripresa e i simboli di navigazione in tempo reale, in sovraimpressione e trasparenza rispetto alla visuale a vista.

Le immagini del visore notturno sono trasmesse al casco via cavo ottico tramite vista binoculare in un campo delimitato da 40° orizzontale a 30° verticale.

Le immagini trasmesse dal DAS all’elmetto vengono generate in tempo reale dai sistemi elettronici del caccia, basandosi sugli imput del VSI electromagnetic head tracking system.

“Rimpiazzare i vecchi caschi HUD con i nuovissimi HDM (helmet-mounted display) richiede però un precisissimo tracciamento elettronico dei movimenti della testa del pilota e un calcolo dei dati grafici velocissimo, a bassa latenza”, afferma la VSI, società di joint venture tra la Elbit Systems’ company EFW e la Rockwell Collins che producono il Joint Helmet-Mounted Cueing System usato dai moderni caccia USA.

 

Difatti, in questa tecnologia, in certi casi sono impercettibili movimenti della testa del pilota ad azionare dei comandi di accesso ai menù o, addirittura, il movimento degli occhi.

"La cosa migliore per evitare che il pilota si distraesse durante il volo, dovendo egli fare diverse cose, era di avere tutte queste funzionalità unite in un unico strumento."

Gestendo direttamente l’avionica del caccia e i dati dei sensori, lo HMD diventa così un virtual HUD con gestione delle immagini riprese di lato o da dietro, eventualmente anche zoomabili. Inoltre, lo HMD provvede dettagli sulle performance del proprio aereo, informazioni su minacce in arrivo o acquisizioni di bersaglio, gestione del radar e immagini a onde medie o quasi infrarosso (near-infrared - IR) provenienti da 6 sensori IR montati sul caccia e un sensore per la visione notturna montato sul casco.

Da un punto di vista percettivo, secondo Branyan la somma delle immagini fornite in tempo reale dai sensori (che cambia a seconda dell’inclinazione del casco) darà al pilota la sensazione di poter vedere a 360° attorno a sé, addirittura, dove la visuale in teoria gli sarebbe coperta dalle paratie laterali o dal pavimento del caccia, quasi come una realtà virtuale di un videogioco. I problemi però esistono e risiedono nella perfetta aderenza che il casco deve avere rispetto alla testa del pilota, per garantire una precisa lettura dei movimenti del capo e degli occhi. Per garantire al pilota la corretta visualizzazione delle informazioni è necessario che il casco calzi alla perfezione, tanto che è necessario misurare la testa di ogni singolo pilota con uno scanner laser (questo sia per l'HMD del Typhoon sia per quello del JSF). Dunque ogni singolo casco è in realtà un pezzo unico confezionato su misura del pilota. I "semplici" HMS (Helmet Mounted Sight) sono naturalmente di diverse misure come i cappelli, ma non individuali, mentre i moderni HMD (Helmet Mounted Display) sono in effetti individuali: il primo volo di test dell' HMD per l' F-35 si è svolto con un paio di settimane di ritardo rispetto al previsto, perché il collaudatore della Lockheed per cui era stato confezionato il casco era malato e nessun altro poteva indossarlo al posto suo.

Difatti, non basta avere la stessa misura di circonferenza cranica per avere una visione corretta con lo HMD, perché anche tra persone con la stessa circonferenza cranica, la posizione delle pupille è variabilissima. In sintesi, si viene a creare una tale fusione tra il casco HMD e il pilota, che i 2 diventano una cosa unica e se il pilota perdesse il suo casco individuale non potrebbe più gestire correttamente il suo caccia.


Da dove ha evinto questa tecnologia l’aeronautica americana?

 

È possibile che anche questa tecnologia dei caschi HUD o la più recente HMD sia derivata dai reperti trovati a Roswell nel 1947?

Se così fosse, si inizierebbe a capire perché sul velivolo di Roswell fosse necessario avere delle tastiere “per ciechi”: con un casco HDM ovviamente, tutta l’attenzione visiva del pilota sarebbe stata focalizzata sul pilotaggio e gli obiettivi di guida e, una “fusione” dei precettori nervosi delle mani con le tastiere di guida avrebbe consentito un controllo praticamente perfetto sull’astronave. Ovviamente, come per il casco, in assenza di esse, non si sarebbe potuto in alcun modo far ritorno a casa e forse questo spiegherebbe il perchè di tutto quell'attaccamento.

 

Esistono, a conferma di questa ipotesi, altri racconti di alcuni ex insiders militari o NASA, alcuni dei quali persino suffragati da dei video. Come il racconto della pilota aliena “Monna Lisa”. Da quasi un anno ormai girano i video diffusi da William Rutledge.

Oggi 76enne, Rutledge afferma di essere un ex pilota civile di prototipi e specialista USAF, residente in Rwanda (Africa) dal 1990 e che avrebbe deciso di rivelare quanto sa e di diffondere i suoi video perché “il 2012 arriverà in fretta” (arrivato e superato oggi 14/09/2022 durante la modifica di questo articolo).
Stando alle sue indiscrezioni, Rutledge sarebbe stato uno dei 3 astronauti (gli altri erano Alexei Leonov e Leona Snyder) coinvolti con una missione NASA segreta svoltasi nell’Agosto del 1976, quella dell’Apollo 20. Tale missione, come è ormai noto, prevedeva lo studio e l’analisi di alcuni reperti alieni presenti sulla superficie lunare nei pressi del cratere Izsak, tra cui, le rovine di una città aliena e i resti di una enorme astronave madre, apparentemente lunga più di 3 km. Una volta atterrati, la visita alla città non fu così ricca di scoperte come speravano: la struttura che venne chiamata 'La Città' era in realtà un cumulo di detriti visti da vicino, afferma Rutledge, di cui solo una costruzione rimaneva intatta, quella che battezzarono col nome di "cattedrale".

La città sembrava antica quanto l'astronave, ma era ridotta malissimo.
Oltre l'astronave aliena vista dall'alto, Rutledge e Leonov ne trovarono anche un'altra, triangolare. Ma la maggior parte delle ricerche le fecero all'interno della grande astronave vista dall'alto: le analisi confermarono trattarsi di un un'astronave madre molto grande, che doveva aver attraversato gran parte dell'universo e, antica circa, a suo dire, un miliardo e mezzo di anni. Vi erano antiche rimanenze di vegetazione all'interno, nella sezione motori e rocce triangolari che emettevano gocce di liquido giallo dalle proprietà apparentemente guaritive e tracce di vita extrasolare. Trovarono anche dei piccolissimi corpi alieni, circa 10 cm l'uno, in capsule di vetro, presumibilmente embrioni, ma la scoperta maggiore furono 2 corpi, di cui uno intatto. Benché alcuni dei video diffusi da Rutledge non siano esenti da difetti, se non addirittura dei falsi, così come la preparazione tecnica dell’ex astronauta e alcuni dettagli da lui rivelati, danno l’idea che ci sia un fondo di verità nelle sue affermazioni.

Di recente, come aveva promesso, Rutledge diffuse su internet un video che mostrerebbe il rinvenimento e il trasporto sul modulo lunare del corpo di una pilota aliena, da loro battezzata “Monna Lisa”. Si trattava di una femmina umanoide, 1.65 di altezza, mani a 6 dita (come gli alieni di Roswell). Da quanto capirono, si trattava del pilota che pilotava l’enorme astronave con le dita e gli occhi, senza timone o cloche.

I 2 astronauti per smuoverla dalla sedia del cockpit dovettero tagliare via 2 cavi collegati al suo naso (cosa che si vede parzialmente nel nuovo video).

Leonov rimosse il visore elettronico dagli occhi della donna e, quando lo fece, alcuni liquidi biologici, forse sangue, le fuoriuscirono dalla bocca, naso, occhi, per congelarsi all'istante nell'atmosfera zero lunare. Alcune parti come i capelli sembravano invece in condizioni insolitamente buone, mentre la pelle sembrava protetta da una sorta di sottile pellicola trasparente. La donna non sembrava né morta né viva, ma come in uno stato di sospensione vitale. Quello che colpisce nei video è l’aspetto della donna aliena, assolutamente lontana dai canoni degli ET di Hollywood e ben più vicina all’aspetto delle creature descritte nella casistica di molti incontri ravvicinati.

L’altezza, l’aspetto peculiare del viso con il volto quasi triangolare, gli zigomi sporgenti, i grandi occhi e l’attaccatura dei capelli ricorda molto da vicino la donna aliena che l’agricoltore Antonio Villas Boas incontrò nell’Ottobre del 1957.

In quel caso la donna era forse meno alta, circa 1,55 di carnagione bianchissima; i capelli biondo platino/bianchi; grandi occhi azzurri a mandorla e le labbra sottili.

Nel video diffuso di recente, si vede il viso e parte delle spalle della donna aliena incastrate in una struttura che sembra vagamente un sarcofago, i lati della bocca collegati agli occhi grazie a 2 coppie di asticelle bianche composte da un materiale indefinibile (Osso? Plastica?) e gli occhi a loro volta collegati ad una specie di estrusione sulla fronte che a qualcuno ricorderà le illustrazioni induiste del terzo occhio, anche qui collegati da una coppia di asticelle bianche. Alcune immagini ravvicinate del volto mostrano le mani degli astronauti mentre rimuovono le asticelle e liberano il volto della donna.
Nella seconda parte del video si vede invece la Monna Lisa sdraiata su di una specie di lettino o altro supporto apparentemente a bordo del modulo lunare LEM dell’Apollo 20 (da un paio di zoomate si vede attraverso il finestrino il suolo lunare con il Rover della NASA parcheggiato). Qui la donna aliena appare già spogliata dei vestiti, fatta eccezione per una specie di garza o tessuto plastico che gli tiene fermo il collo. 

Nel lato destro del campo di ripresa, a fianco della EBE, un secondo astronauta dopo averci giocherellato un pò posa una telecamera e prende in mano un block notes.

Si nota il corpo della donna, apparentemente umanoide (a parte le 6 dita di cui parlava Rutledge che però non si vedono), l’apparato mammario, addirittura un ombelico che suggerisce un sistema di riproduzione simile al nostro, la pelle un po’ rovinata, apparentemente indurita se non addirittura calcificata da qualche sostanza protettiva trasparente o dal tempo stesso. I capelli sono raccolti da una sorta di reticella scura che ha probabilmente dato ai cosmonauti l’idea di somiglianza con la donna raffigurata nel capolavoro di Leonardo Da Vinci. Nell’intervista Rutledge, affermava che la donna non avesse narici e per quanto sembri averle, guardando bene il video si nota che le narici non hanno fessure, sembra quasi che siano “tappate” chirurgicamente con della pelle per questioni insondabili.

Possiamo ipotizzare sia stato per evitare perdite di ossigeno, dato che a quanto afferma Rutledge, in origine Monna Lisa avesse la bocca collegata a una sorta di tubo (cosa che non si vede nel video), che probabilmente le forniva ossigeno, oppure (ipotesi affascinante) per evitarle di sentire odori, cosa che forse l’avrebbe distratta dalle sue funzioni di pilota concentrata a trovare una pista tra le stelle.

 

Il mistero di Monnalisa sulla Luna

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Cosa dire di questo ennesimo video? La donna aliena potrebbe essere un falso, ma ben fatto e molto costoso. L’interno del LEM stavolta è meglio visibile che nei precedenti video e non può trattarsi di un montaggio di vecchi video NASA visto i protagonisti presenti in scena.

Inoltre, alcuni ricercatori hanno già stigmatizzato come tutta l’apparecchiatura di bordo visibile nella scena sia perfettamente congrua con quando risulta dai manuali tecnici della NASA riguardo la strumentazione degli Apollo.

E in una zoomata si vede anche l’esterno del suolo lunare con il Rover.

Inoltre, uno degli astronauti ripresi possiede una tuta da astronauta coerente con quelle indossate dagli astronauti dell’epoca. Ma un dubbio ci coglie, mentre scriviamo.

Chi è l’uomo ripreso dalla telecamera che prende il block notes? Leonov?

O lo stesso Rutledge?
Di William Rutledge ovviamente non c’è materiale in giro, nessuna foto o biografie, viene da chiedersi se questo sia il suo vero nome. Come si sa, a detta di Rutledge, Leona Snyder era in volo a bordo del modulo orbitante.

Di Alexei Leonov invece le foto abbondano: in Russia è diventato un eroe nazionale, primo uomo ad aver compiuto la “passeggiata” extraveicolare nel vuoto dello spazio in orbita il 18 Marzo 1965 e, intrepido astronauta che nel 1975 compì lo storico incontro in orbita tra una navetta USA e una Sovietica: il rendez-vous Apollo-Soyuz.

Leonov per l’occasione venne addestrato a Houston, in Texas, imparò l’inglese e venne apprezzato da tutti per le sue qualità tecniche e di pilota, il suo carattere e la sua simpatia.

 

Con una certa riluttanza vado a salvare i fotogrammi del video (come al solito di scarsa qualità) e li importo in Photoshop. Cerco di alzare la qualità visiva dei fotogrammi, l’astronauta si muove, la camera che riprende si muove, ci sono oscillazioni nei colori e il video è stato salvato a bassa qualità. “Un lavoro inutile, come al solito”, penso tra me.

Riesco a ottenere dei fotogrammi quasi chiari, un paio.
Ma è solo quando pongo accanto alcuni fotogrammi, il volto bonario e lievemente scimmiesco di Leonov che lentamente si fa largo in me una sensazione di stupore.

I capelli radi, le sopracciglia alte, le profonde rughe ai lati della bocca, la peculiare distanza tra la radice del naso e l’attaccatura della bocca, la curva delle spalle, sono incredibilmente somiglianti ai tratti del volto di Leonov. Poi, trovo una foto scattata a bordo del Soyuz durante il Rendez-Vous del 1975 (quindi, appena un anno prima della suddetta missione narrata da Rutledge). Lo stretto abitacolo, la tuta che indossa il cosmonauta sovietico, la fioca luce di bordo e, per puro caso nella foto tiene in mano la medaglia ricordo della missione, assumendo una posa incredibilmente simile a quella che si vede nel video di Rutledge: tutto simile e tutto incredibilmente combacia.

Nonostante la pessima qualità del fotogramma, si evince chiaramente una somiglianza fortissima. Nel video, dunque, c’è qualcuno che assomiglia incredibilmente a com’era Leonov nel 1975. Scoprii in seguito che Leonov aveva una fama di giocherellone, sempre scherzoso e di buon umore nonostante le difficoltà. 

Sarebbe stato consono col personaggio mettersi a giocherellare con una telecamera, anche di fronte a una situazione limite come l’aver ritrovato il corpo di una donna aliena.

❖ I pezzi mancanti: la doppia missione

Una collaborazione USA-URRS negli anni ’70 era ben strana, la tensione tra i 2 paesi era ancora alta e la missione nota come Apollo-Sojuz (ASTP) fu la prima collaborazione tra gli Stati Uniti d'America e l’Unione Sovietica nel settore dei voli nello spazio di sempre.

Un forte impegno politico, scientifico e militare, solo per una passeggiatina nello spazio.

Perché? Altro discorso interessante: nell’emblema della missione Apollo 20 diffuso da Rutledge, si notano 2 navette sollevare la nave aliena e portarla via (cose che era forse l’auspicio, non realizzato, della missione). Ma perché 2 navette?

Può darsi che una delle 2 rappresenti il LEM, oppure si trattava di 2 navette diverse, proprio come quelle che si agganciarono nello spazio il 17 Luglio 1975, una navicella spaziale del programma Apollo ed una capsula Sojuz. Chissà, forse si trattava di una preparazione alla missione che si sarebbe tenuta l’anno seguente. Perché agganciarsi in orbita? 

Forse era una manovra che si sarebbe resa necessaria nel corso della missione, ma in orbita circumlunare, ben lontano dagli occhi dei curiosi. Perché?

Forse questa è la domanda a cui è più facile rispondere: i russi all’epoca forse avevano scoperto che esisteva questa nave di 3 km nel cratere Itzak e non volevano essere tagliati fuori dall’impresa. Inoltre, 2 equipaggi con 2 astronavi avrebbero potuto trasportare il doppio del materiale, avere più personale per le attività extraveicolari, più esperienze diversificate.

Per certo, Leonov sembra apparire fantasmicamente nei video di Rutledge sulla Luna, un anno dopo l’aggancio tra la Soyuz e l’Apollo. Un caso?

È ovvio che c’era una collaborazione con l’URSS per la missione dell’Apollo 20 se la presenza di Leonov fosse confermata, così come è ovvio che l’aggancio in orbita del ’75 potesse essere stata la preparazione a qualcosa di più importante.

Se venisse confermata l’ipotesi del “doppio” viaggio URRS-USA verso la Luna, apparirebbe evidente che Rutledge avrebbe rivelato le cose solo a metà.

Non sarebbe improbabile allora che la reale identità di Rutledge sia quella di uno degli altri astronauti americani noti all’epoca, magari uno di quelli che avevano già lavorato con Leonov alla ASTP: Deke Slayton, Thomas Stafford o Vance D. Brand.

Slayton però morì nel Giugno del 1993. Le ipotesi rimangono aperte.

 

  1. La testa è grande da standard umano
  2. L'occhio è generalmente inclinato, grande e nero
  3. Il naso è di solito vago
  4. Due narici piccole sono comunque visibili
  5. La bocca è indicata da una piccola fessura senza labbra, che sembra essere non funzionale
  6. Non ci sono i denti nella cavità orale
  7. Il corpo e la testa sono completamente lisci e senza peli
  8. Il Torso è descritto come piccolo e sottile, spesso coperto da una veste metallica
  9. I bracci sono lunghi e sottili e raggiungono le ginocchia
  10. Le dita variano da 3 a 4, lunghe palmate, ed eventualmente con un artiglio o unghia
  11. Le zampe sono corte e sottili, la maggior parte dei rapporti Ufo indicano che i piedi sono coperti

 

Cervello di un alieno grigio
Cervello di un alieno grigio

 

 

Il cervello è più grande del nostro e ha più di 2 lobi, forse 3.

Il 3° lobo è pensato per essere utilizzato per la comunicazione telepatica.

Alieno grigio
Alieno grigio

 

La pelle varia dal marrone chiaro al colore grigio pallido. La struttura è come scaglie rettile o liscia. Nessuna struttura muscolare o scheletrica è visibile. Esternamente non sono visibili organi riproduttivi, la riproduzione è possibile da un metodo di clonazione.

Combinazione di cuore e polmoni
Combinazione di cuore e polmoni

 

 

Non trovato tratto digestivo riconoscibile, ma 2 pezzi di organi che sembrano essere combinati tra cuore e polmoni.
Il funzionamento digerente si crede che sia possibile attraverso la pelle in una forma di osmosi.

Copertura degli occhi dei grigi
Copertura degli occhi dei grigi

 

Gli occhi sono uno degli elementi più sorprendenti riportati nelle varie descrizioni di Abduction (rapimenti) si presume che la parte dell'occhio totalmente nera, sia in realtà una copertura con 2 funzioni:

 

  1. offrire una protezione
  2. funge anche da lente 

Fonte

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